Dalle classificazioni in compartimenti stagni alle formule ibride
Da uno sguardo alle tendenze affermatesi negli ultimi anni e a quelle tuttora in atto, comprese le esperienze di produzione e somministrazione maturate in ambito domestico, emerge che la spinta al cambiamento nel campo della ristorazione e della gastronomia è principalmente orientata verso la nascita di formule ibride, difficilmente inquadrabili nei compartimenti stagni che da sempre contraddistinguono le categorie tradizionali.
Emblematici sono i casi della vendita di generi alimentari all’interno dei negozi, da un lato, e della somministrazione di alimenti e bevande in bar e ristoranti, dall’altro. A queste tipologie di servizio corrispondono specifici titoli abilitativi. Un tempo si trattava di veri e propri provvedimenti rilasciati dal Comune, le autorizzazioni, che nel linguaggio comune si usa ancora chiamare licenze. Ora, invece, sappiamo che l’avvio di un’attività è sottoposto al meccanismo della segnalazione certificata di inizio attività (in sigla Scia), sempre indirizzata al Comune, ma efficace fin dal momento della presentazione da parte del privato, senza bisogno di aspettare che l’ente formalizzi alcun atto.
Le classificazioni della burocrazia: vendita e somministrazione
Nel linguaggio burocratico, l’apertura di un negozio di alimentari si identifica con la Scia per l’apertura di un esercizio commerciale di vicinato con Notifica sanitaria, mentre invece se la nuova attività è un bar o un ristorante, allora l’intervento prende il nome di Scia per l’apertura di un pubblico esercizio di somministrazione di alimenti e bevande. Siamo di fronte a due diversi titoli abilitativi, a cui tradizionalmente corrispondono attività ben distinte: vendita di generi alimentari nel caso dell’esercizio commerciale, somministrazione di alimenti e bevande, e cioè vendita per il consumo sul posto, nel caso di bar e ristoranti. I principali elementi distintivi tra vendita e somministrazione sono dunque la consegna per asporto, nel primo caso, e la vendita per il consumo sul posto, nel secondo.
Ma le differenze tra vendita e somministrazione non si esauriscono solo nei profili autorizzatori. Anche la strumentazione e gli arredi sono funzionali al tipo di servizi resi, così come a cambiare sono procedure d’igiene e layout.
L’esempio del consumo sul posto negli esercizi di vicinato: la crisi delle classificazioni
Ad aprire una breccia nel diaframma che distingue la vendita dalla somministrazione è il decreto Bersani del 1998 (n. 114), che per la prima volta introduce la possibilità di consumo immediato dei prodotti alimentari negli esercizi di vicinato autorizzati alla vendita degli stessi, a condizione che siano esclusi il servizio di somministrazione e le attrezzature ad esso direttamente finalizzate. La novità è rilevante, se si pensa che con la disciplina previgente il commerciante non abilitato alla somministrazione poteva solo proporre assaggi gratuiti, al fine di promuovere la vendita o favorire la scelta.
Ad abbattere pressoché definitivamente il muro tra somministrazione e vendita è il decreto Bersani del 2006 (n. 223), convertito dalla legge n. 248, che sostituisce la previsione introdotta otto anni prima con un’altra di più ampio respiro: il consumo sul posto negli esercizi di vicinato, fermo il divieto del servizio assistito di somministrazione, è ammesso utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda, oltre che nel rispetto delle prescrizioni igienico-sanitarie.
Anche se la nuova legge richiama espressamente il divieto del servizio assistito, ormai sono ben poche le differenze che permangono tra l’una e l’altra forma di consumo sul posto.
Alle resistenze del Ministero dello Sviluppo Economico, che in questi anni ha continuato imperterrito a difendere la logica delle classificazioni e dei compartimenti stagni tra i regimi autorizzatori del commercio e somministrazione, si è sempre contrapposta l’Autorità Antitrust, che in più occasioni ha avuto modo di condannare apertamente le interpretazioni restrittive portate avanti dal MISE. In sostanza, fin dai suoi primi interventi (Circolare 28 settembre 2006, n. 3603/C), il Ministero ha sempre cercato di limitare l’ambito di applicazione della norma sul consumo sul posto negli esercizi commerciali, al semplice scopo di tutelare il settore della somministrazione nei pubblici esercizi ed evitare “commistioni” tra l’una e l’altra modalità di offerta. Così operando, ha però bloccato lo sviluppo di una forma innovativa di servizio, qual è appunto la possibilità di consumare all’interno di un negozio ciò che si è appena comprato. Non potendo vietare in assoluto questa pratica, prevista dalla legge, ha cercato di ostacolarne il libero esercizio con interpretazioni spesso stravaganti, aspramente criticate dall’AGCM (Segnalazione AS900 del 4 gennaio 2012). In uno dei suoi interventi più recenti (Segnalazione AS1316 del 27 ottobre 2016), l’Autorità si è soffermata sul punto centrale della questione, e cioè l’individuazione del criterio-guida per distinguere la somministrazione di alimenti e bevande dalla vendita con consumo sul posto. Anziché identificarlo, come fa il Ministero, nelle dotazioni strutturali (arredi), lo circoscrive alla presenza o meno del servizio assistito, sulla scorta dell’unico dato inequivocabile presente nel testo della legge Bersani del 2006.
Le prescrizioni igienico-sanitarie
L’osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie rappresenta, insieme al divieto di servizio assistito, l’altro dato normativo esplicito contenuto nella legge Bersani del 2006. Questo richiamo al rispetto dei requisiti d’igiene, formulato in termini generici ma chiari allo stesso tempo, assume un’importanza fondamentale per risolvere il conflitto tra forme di regolamentazione ed esigenze del mercato.
Finora, lo sviluppo di nuove prospettive imprenditoriali in questo settore ha dovuto subire limiti e restrizioni dettate da regole finalizzate a cristallizzare gli assetti concorrenziali a tutela gli operatori già presenti. Ma cosa succederebbe se smettessimo di utilizzare la regolamentazione come un sistema per incasellare dall’alto le attività, al fine di prevenire le spontanee evoluzioni del mercato dei servizi? E’ semplice: domanda e offerta sarebbero libere di incontrarsi in base alle reciproche esigenze, e le uniche regole applicabili avrebbero il compito di tutelare i beni primari, come ad esempio la salute, l’igiene, i diritti dei lavoratori, ecc.
A definire quali servizi possono essere svolti in un’attività economica alimentare non devono essere le classificazioni astratte che ancora suddividono in scatole separate i profili autorizzatori (esercizi di vicinato, pubblici esercizi della somministrazione, ecc.), ma i soli requisiti d’igiene nella preparazione, trasformazione e vendita degli alimenti.
E così, a parte il “tormentone” degli arredi che ancora vede fronteggiarsi Ministero e Autorità Antitrust, per ammettere la possibilità di utilizzare anche in un negozio calici di vetro e stoviglie durevoli basterebbe ad esempio la presenza di una lavastoviglie. Ma la casistica è ampia, e coinvolge macchine automatiche per caffè, erogatori alla spina self-service, ecc.: in tutti questi casi, dovrebbero essere le eventuali prescrizioni igienico-sanitarie a stabilire quali garanzie d’igiene si debbano assicurare per poter esercitare un certo tipo di servizio. In mancanza di prescrizioni, toccherà all’impresa organizzare autonomamente attrezzature, layout e buone prassi operative in funzione del servizio che si intende offrire e nel rispetto dell’igiene.
La Notifica sanitaria è sempre stata la sede ideale in cui evidenziare le ricadute dal punto di vista igienico sanitario delle scelte intraprese nell’ambito di una specifica attività. Questo, quanto meno, fino a quando è stato possibile allegare alla Notifica la Relazione tecnica, quella scheda talvolta anche molto sintetica, che rispondeva all’esigenza di illustrare le caratteristiche di locali, attrezzature, impianti, ciclo di lavorazione, e altre informazioni circa le prassi igieniche adottate nell’impresa. Ora, la nuova modulistica unificata standard licenziata dalla Conferenza Unificata, obbligatoria per tutti i Comuni, ha eliminato la Relazione tecnica, per cui si pone il problema di come poter dimostrare e garantire, a livello documentale, la correttezza dei metodi e delle soluzioni adottate, anche ai fini dell’attività di controllo. A questo proposito, l’attenzione si sposta obbligatoriamente sul Manuale HACCP, o di corretta prassi operativa, che rimane l’unica sede documentale che possa offrire un riscontro sulle procedure adottate in materia d’igiene.
Anche le scelte di semplificazione intraprese sul tema della planimetria dei locali non sono esenti da critiche. Ricordiamo che la nuova modulistica prevede l’obbligo di allegare una planimetria quotata solo in caso di esercizi della somministrazione, mentre l’adempimento non è più richiesto per gli esercizi di vicinato. È evidente che la realizzazione di una planimetria quotata implica dei costi dovuti all’intervento di un tecnico, essendo alquanto improbabile che l’imprenditore abbia i mezzi e le capacità di produrre in autonomia un elaborato grafico con tanto di layout e quote. Le maggiori difficoltà si riscontrano nel caso in cui sia necessario progettare soluzioni tecniche specifiche, soprattutto per quanto riguarda l’organizzazione degli spazi e la distribuzione di arredi e attrezzature, anche in ragione delle esigenze richieste dalle buone prassi in materia d’igiene. Tutto questo assicura una progettazione in grado di raggiungere gli obiettivi richiesti dalla normativa di settore. In altre parole, il layout è già di per sé uno strumento che costituisce un presupposto per il corretto esercizio dell’attività e delle stesse procedure di controllo, autocontrollo e vigilanza.
Se l’eliminazione dell’adempimento connesso alla produzione della planimetria può trovare una sua logica nell’ambito delle attività di vendita alimentare relative soprattutto a prodotti confezionati all’origine, del tutto diverso è il caso dei laboratori artigianali, soggetti alla sola Notifica sanitaria, e pertanto esclusi dall’obbligo di allegare la planimetria.
Altro ambito in cui la mancanza di dettagli sulla disposizione di attrezzature e strumenti è fonte di criticità, è quello delle manifestazioni temporanee con somministrazione. Eliminato l’obbligo di fornire il layout allegato alla Notifica, l’istruttoria relativa a queste pratiche subisce una forte limitazione, venendo meno un importantissimo strumento di conoscenza e controllo preventivo nei confronti di situazioni spesso improvvisate e gestite da personale volontario.
Regole collettive e dimensione individuale: un conflitto insanabile?
Basta frequentare i centri storici delle nostre città, grandi e piccole, per vedere come ad ogni angolo di strada, l’offerta di prodotti enogastronomici si stia evolvendo verso commistioni e forme ibride che facciamo sempre più fatica ad inquadrare come “esercizio commerciale” o “pubblico esercizio”. Diventa impossibile tracciare un confine netto tra la grande varietà di proposte anche molto diverse. Tutte però, trovano un denominatore comune nel consumo d’impulso e nella convivialità, solleticando un risvolto emotivo che si sta imponendo come fenomeno di costume, ben oltre il bisogno di bere o mangiare qualcosa. E tutto questo sta avvenendo in barba alle farraginose distinzioni normative che ancora albergano nel nostro ordinamento e appaiono sempre più incomprensibili alla società che ne è destinataria, come se si trattasse di norme obsolete, talmente lontane dal vissuto quotidiano e dall’attuale evoluzione di costumi ed abitudini, da essere considerate ormai implicitamente abrogate.
La conseguenza più evidente di questa distanza tra norme e mercato, risiede nei fenomeni di “fuga dalle regole” o di regolamentazione “fai da te”. Lo schema è il seguente: l’imprenditore, spesso in lotta con la crisi economica o con l’elevata tassazione, offre un servizio in risposta ad una determinata domanda proveniente dalla clientela o al fine di stimolare egli stesso la clientela, ma non si chiede se ed in che misura ciò che sta facendo sia lecito, lo fa e basta, ben contento di aver trovato finalmente il modo per risollevare le sorti della propria attività. Quando l’autorità preposta al controllo rappresenta eventuali criticità, la reazione dell’imprenditore non è la cessazione della pratica non consentita, ma la pressante richiesta sul come poter continuare ad esercitare senza però investire denaro in modifiche strutturali, ad esempio. Insomma, ci si sforza di trovare la scappatoia, l’escamotage, il trucco per poter continuare a lavorare a proprio modo e non come in realtà vorrebbero le norme “sulla carta”.
In altre parole, si è disposti a tutto pur di mettere in discussione le regole collettive, ma non si pensa nemmeno per un attimo a mettere in discussione sé stessi e le proprie scelte.
Il risultato che si ottiene ad insistere nel mantenere un contesto normativo che potremmo considerare, almeno in certi casi, superato dagli eventi, è la perdita di cogenza delle norme stesse. Se il cittadino non riesce più a capire il senso delle regole, o se, ancor peggio, le ritiene assurde ed ingiuste, allora significa che non sono più in grado di limitare e indirizzare la sua libertà, e quindi le trasgredisce.
Se invece il sistema si basasse su pochi principi ma chiaramente ispirati a proteggere in modo proporzionato e ragionevole valori indiscutibili e condivisi, come ad esempio la salute, allora le regole collettive, per quanto possano inevitabilmente confliggere con la dimensione privata, sarebbero più facilmente accettabili e quindi efficaci.
Le semplificazioni nel decreto Scia2: tra occasioni perdute e assenza dei nuovi mercati
Un provvedimento che recentemente ha fatto molto discutere per il divario tra aspettative ed esiti in termini di mancate semplificazioni, è il tanto atteso decreto “Scia2” (D. Lgs. n. 222/2016), con il quale, tra l’altro, sono stati stabiliti i regimi amministrativi per le attività economiche nella nota “Tabella A”. Chi si aspettava che questa fosse l’occasione buona per un’effettiva sterzata all’insegna della liberalizzazione o, quanto meno, di una importante riduzione degli oneri amministrativi a carico delle imprese, è rimasto deluso. Lo Scia2, infatti, nonostante la novità costituita dal metodo di regolamentazione “soft”, per il tramite della Tabella, è rimasto debitore della vecchia impostazione giuridico-formale risalente al decreto Bersani del 1998. Con queste parole, il Consiglio di Stato, nel Parere 1784 del 4 agosto 2016, non ha mancato di sottolineare la portata troppo modesta delle semplificazioni. L’assetto dei regimi amministrativi, di ciò che è assoggettato a sola comunicazione, a scia o ad autorizzazione espressa, è rimasto cristallizzato nelle classificazioni del passato, senza cambiamenti o innovazioni di rilievo.
Ma il Consiglio di Stato punta il dito anche nei confronti di un’altra lacuna: le nuove attività generate dal mercato non sono contemplate in alcun modo all’interno della Tabella A, con la conseguenza che, sfuggendo a questa classificazione, ricadono nella norma di chiusura del decreto Scia1 (comma 2, art. 1): “le attività private non espressamente individuate ai sensi dei medesimi decreti o specificamente oggetto di disciplina da parte della normativa europea, statale e regionale, sono libere”. Ciò significa, con effetto a volte paradossale, che se un’attività economica non è espressamente individuata dallo Scia2 o da altri decreti analoghi da adottare successivamente, è da considerarsi del tutto libera, nel senso che può essere svolta senza preventive comunicazioni, scia, ecc. Resta salva l’eventuale disciplina europea, statale o regionale.
Quanto alle attività di produzione alimentare domestica, abbiamo una disciplina a livello europeo, contenuta nel Pacchetto igiene e nelle misure di carattere orizzontale ricavabili da altri Regolamenti in materia. Quindi, la mancata previsione all’interno della Tabella A dello Scia2 delle “nuove attività generate dal mercato”, per richiamare l’espressione usata dal Consiglio di Stato, non basta per considerare l’home restaurant e simili come attività del tutto libere. Anche se possiamo eventualmente dibattere sulla necessità per l’home restaurant di un titolo abilitativo di tipo economico (Scia), è comunque applicabile la disciplina europea in materia di igiene degli alimenti, secondo l’interpretazione qui sostenuta e infine accolta anche nell’impostazione della nuova modulistica unificata. Ciò comporta che per l’avvio delle attività alimentari domestiche sia necessaria la Notifica sanitaria, come del resto anche la nuova modulistica unificata prevede.
Regimi amministrativi e produzioni alimentari domestiche: quali impatti effettivi?
Questa lunga digressione sulla crisi delle classificazioni tradizionali offre importanti spunti anche sul fronte delle attività di preparazione alimentare domestica. Anzi, possiamo affermare che le attuali tendenze del settore rappresentano un esempio lampante di come sia difficile, oltre che inutile e dannoso, continuare ad incasellare le attività in regimi autorizzatori separati.
I servizi di vendita e somministrazione di alimenti e bevande, come negozi di alimentari, i bar e i ristoranti, risentono ancora delle influenze derivanti dall’antico sistema delle corporazioni e congregazioni di stampo medievale, fondato sulla separazione ben precisa delle attività e delle professioni, a cui corrispondeva un altrettanto distinta ripartizione dei mercati e degli interessi. Col tempo però, questa logica divisoria è andata progressivamente in crisi, principalmente per ragioni attinenti al cambiamento delle abitudini di acquisito, e alla progressiva presa di coscienza, da parte del consumatore, della propria capacità di scelta. Perché l’home restaurant e gli altri fenomeni di produzione alimentare domestica faticano ad essere inquadrati nelle categorie tradizionali? Proprio perché la loro nascita, e il conseguente sviluppo, sono stati modellati non in base alle esigenze degli operatori e delle rispettive categorie di appartenenza, ma a quelle dei consumatori, che cambiano in continuazione, di pari passo con l’evoluzione del costume e delle tendenze.
Al contrario delle corporazioni, strutturate in un sistema chiuso modellato sulle esigenze dell’offerta, un servizio così profondamente orientato alle esigenze della domanda, e cioè del consumatore, è fatto di una sostanza mutevole ed aperta, difficile da inquadrare in classificazioni determinate a priori.
A stabilire il tipo di servizio erogabile da parte di un’attività economica alimentare e/o gastronomica, devono essere le caratteristiche strutturali, il layout, le attrezzature, il ciclo di lavorazione e le eventuali prescrizioni igieniche, ma non classificazioni dirigisticamente imposte e attinenti a profili amministrativi. In altre parole, gli unici condizionamenti accettabili rispetto alla libertà di fare impresa, risiedono nelle salvaguardie per prevalenti interessi generali riconducibili alla tutela dei lavoratori, alla tutela della salute, alla sicurezza, al decoro urbano, alla quiete pubblica, ecc.
Nel caso delle produzioni alimentari domestiche o della ristorazione casalinga, di tipo laboratoriale o basate sulla convivialità, le dimensioni organizzative limitate e i modesti impatti riducono l’ambito di salvaguardia all’igiene degli alimenti, oltre che al rispetto della quiete, della normativa fiscale, e poco altro. Quindi, una volta assicurata la protezione di questi intessi generali, null’altro dovrebbe assumere rilevanza al punto da condizionare l’avvio dell’attività.
Guardando al passato, non mancano le esperienze di semplificazione in cui le barriere tra attività sono state abbattute. Senza allontanarci troppo, si pensi alla “tipologia unica” dei pubblici esercizi, che in alcune Regioni ha fatto tabula rasa delle categorie A (ristoranti), B (bar), C (locali) e D (gelaterie), ancora presenti invece nella vecchia legge nazionale n. 287/91. A cosa serviva questa parcellizzazione delle attività? A fissare contingenti numerici per impedirne l’apertura di nuove, ad esercitare un controllo dall’alto sullo sviluppo del mercato.
Negli esercizi pubblici a tipologia unica, guarda caso, sono solo i requisiti igienico sanitari a stabilire il tipo di servizio erogabile. Si tratta dello stesso principio invocato più sopra per superare i confini tra attività cosiddette commerciali e della somministrazione, se per convenzione vogliamo ancora utilizzare questa terminologia.
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